30/09/13

2.0? L’attualizzazione del testo nella scuola del mito digitale

di   Stefano Rossetti (ADI SD Piemonte), Liceo Curie, Pinerolo
 (relazione tenuta al Congresso ADI Roma, 19 settembre 2013)
  La mia relazione nasce dal confronto che i docenti impegnati nel progetto Compita hanno svolto al termine dell’attività del primo anno di ricerca.
Fra le considerazioni che abbiamo condiviso, c’è la convinzione di avere fatto troppo poco per coinvolgere attivamente gli studenti: nonostante le buone intenzioni e i decisi passi avanti nella riflessione teorica, la nostra pratica didattica è risultata ancora troppo ancorata alla posizione centrale del docente; ci siamo quindi interrogati sulle modalità e sulle pratiche che potrebbero aiutarci a dare concretezza a quest’aspetto del lavoro.
Per realizzare questo scopo, pensiamo che l’attualizzazione del testo possa assumere un ruolo particolarmente importante.
Vorrei quindi provare a definire la sua utilità servendomi di un semplice esempio pratico, e poi ragionare su alcuni aspetti della comunicazione scolastica che possono influire su di essa.
  Parto da una delle storie naturali di Primo Levi, Censura in Bitinia, nella quale il narratore descrive con taglio giornalistico l’immaginario paese, dove il governo è alla ricerca di un metodo perfetto per censurare la libertà di pensiero ed opinione.
Verso la conclusione, si leggono queste parole:

  E’ però di queste ultime settimane una notizia che dà adito a qualche speranza. Un fisiologo, il cui nome viene tenuto segreto, a conclusione di un suo ampio ciclo di esperienze, ha rivelato in una discussa relazione alcuni aspetti nuovi della psicologia degli animali domestici. Questi, se sottoposti ad un particolare condizionamento, sarebbero in grado non solo di apprendere facili lavori di ordinamento e di trasporto, ma anche di eseguire vere e proprie scelte.
  Si tratta indubbiamente di un campo vastissimo ed affascinante, dalle possibilità praticamente illimitate: in sostanza, da quanto è stato pubblicato dalla stampa bitiniese fino al momento in cui scrivo, il lavoro censoriale, che nuoce al cervello umano, e che le macchine sbrigano in modo troppo rigido, potrebbe essere affidato con profitto ad animali opportunamente educati. A chi ben guardi, la sconcertante notizia non ha in sé nulla di assurdo: poiché non si tratta, in ultima analisi, che appunto di una scelta.

La narrazione si conclude poi con la comunicazione che, allo stato attuale delle conoscenze, il pollo domestico sembra essere l’animale più adatto all’esercizio della censura.
  Anche un’analisi brevissima, l’unica possibile in questo contesto, evidenzia immediatamente le potenzialità culturali e formative del processo di attualizzazione, in relazione almeno a quattro ambiti:

  1. la ricostruzione del contesto storico del racconto ( scritto nel 1966, con un occhio alla memoria dei totalitarismi ed uno alla “dittatura” della società dei consumi ) ed il suo confronto con quello odierno, sia per cogliere affinità ( quante Bitinie esistono, oggi, nel mondo? ), sia per ragionare sulle differenze e sull’evoluzione della società ( in che misura la società dei mass media e dell’informazione esercita forme diverse di censura, o addirittura le spaccia per “libertà”? )
  2. la riflessione su temi portanti della cultura di allora, in relazione a quella odierna: in particolare il ruolo della scienza nella società ed il suo rapporto con l’etica
  3. l’implicazione psicologica del lettore nel testo; per me/ insegnante questo significa ricordare che fu mio papà a guidarmi a leggere Levi ( con Fenoglio e Arpino ), trasmettendomi un’idea forte del valore conoscitivo della lettura fin dalla più tenera età. Chiedermi cosa possa invece radicare un giovane studente nella lettura e nell’analisi di questo racconto significa pensare al testo in un particolare contesto educativo e relazionale
  4. l’impegno metacognitivo, che spinge i diversi lettori/ studenti a cercare di individuare, nel racconto, elementi utili e pertinenti per ricostruire la loro visione del mondo narrato, ed un loro giudizio su di esso, interrogandosi quindi su se stessi, sul loro passato, sulle loro aspettative
L’importanza dell’attualizzazione nel percorso di apprendimento è stata illustrata da diversi studiosi: mi rifaccio alle riflessioni di Ferroni ( Dopo la fine ) e di Luperini ( Insegnare la letteratura oggi ), per ricordare come per suo tramite si attivino conoscenze, processi e valori culturali che la letteratura contribuisce a sviluppare e trasmettere. Essa implica la conoscenza di nozioni ampie ed approfondite, la comprensione del testo e la valorizzazione dei suoi diversi elementi, l’interpretazione critica sia nella sua dimensione emotiva che in quella razionale. Si traduce, quando dispiega le sue potenzialità, in un potente arricchimento personale, anche sul piano dell’autostima e dell’autonomia di pensiero.

  Ha senso, allora, chiedersi se esista, in relazione a questo complesso procedimento di pensiero, un orientamento comune a tutti i soggetti della comunicazione scolastica. In altri termini, interrogarsi su quali idee siano immediatamente associate all’attualizzazione, quando se ne parla e la si pratica in classe.
Secondo me, insegnanti e studenti non attribuiscono alla parola lo stesso significato e non la associano alle stesse emozioni.
Esiste infatti fra loro una profonda differenza naturale, che Leopardi riassume nel suo canto Alla luna quando, definisce il “tempo giovanil” come quello in cui “ancor lungo/ la speme e breve ha la memoria il corso”. Nella sua geometrica esattezza, questa descrizione dell’esistenza umana dice che lo sguardo dell’adulto ( anche quando non si senta precocemente invecchiato, come il poeta ) è naturalmente rivolto all’indietro, mentre quello del giovane guarda avanti.
Per un adulto/ docente, al centro dell’attualizzazione c’è il contenuto della comunicazione, l’oggetto storico letterario ( che lui già conosce ); la nostra azione educativa è tesa ad attualizzare per conservare l’esistente, perché lavoriamo sulla memoria letteraria.
Per un giovane studente, invece, al centro c’è il processo soggettivo di acquisizione, che lo spinge verso il cambiamento dell’esistente; la sua dimensione è la speranza.

  Su questa inclinazione psicologica al cambiamento, che i mass media “vecchi” e “nuovi” hanno trasformato in tendenza sociale, la ricerca contemporanea propone riflessioni interessanti.
Studiosi come Henry Jenkins e James P. Gee sono impegnati da anni ad elaborare una vera e propria teoria pedagogica, nel tentativo di superare la sterile contrapposizione fra modelli culturali di apprendimento: quello tradizionale/ formale/ adulto, quello innovativo/ informale/ giovanile.
Essi sottolineano alcuni tratti comuni alle culture giovanili contemporanee che risultano molto stimolanti se applicate ai contesti di apprendimento, ed in evidente relazione con una didattica per competenze.
Ne indico sinteticamente tre, riferendomi a due libri recenti ( Culture partecipative e competenze digitali, di Jenkins, uscito da Guerini nel 2011; Come un videogioco, di Gee, uscito quest’anno presso Raffaello Cortina, ma pubblicato nel 2007 ):

  1. la forte tendenza alla socialità, che induce a parlare di “culture partecipative” e di una “conoscenza diffusa” o “condivisa”. Sebbene i luoghi della socialità e della relazione siano intesi in queste forme culturali in modo spesso differente da quello cui gli adulti sono abituati, l’associazione fra “virtuale” e “falso” risulta in molti casi un modo sbrigativo per non fare i conti con il sapere dei giovani
  2. il desiderio di apprendere fattivamente, costruendo durante il percorso una propria autonomia ed originalità nell’affrontare i problemi; questo desiderio si esprime soprattutto in forme di apprendimento informali, e si esprime di preferenza attraverso il gioco, la manipolazione, la contaminazione dei contenuti e dei temi. Tuttavia, questo non implica affatto che si riveli inutile in un percorso di apprendimento che si prefigga obiettivi più tradizionali
  3. la presenza di una dimensione di “moratoria psicosociale” ( espressione coniata da Erickson, in un ambito diverso, nel 1963 ), che esprime il bisogno di imparare in contesti privi di una valutazione che sanzioni l’errore e lo segnali come modello negativo. In questo senso, assume un evidente significato esemplare l’identità proiettiva assunta da molti giovani nei videogiochi, cui segue la possibilità estrema di una “morte” virtuale ( e della successiva “resurrezione” )
  Ammettendo che questi tratti tipici degli stili giovanili di apprendimento possano risultare utili in un percorso formativo, bisogna però ricordare che studenti ed insegnanti agiscono in un contesto istituzionale, in cui l’idea di “attualità” viene intesa come modernizzazione tecnologica/ strumentale.
Questa attualizzazione del contesto formativo si regge su due miti di fondazione:
-         l’esistenza di un gruppo di persone definito dai suoi autori “nativi digitali”
-         l’esistenza di una tecnologia “neutra” rispetto ai contesti nei quali viene applicata
 Il secondo mito è stato spiegato troppe volte per doversi soffermare su di esso; è sufficiente ricordare ad esempio le profetiche riflessioni dello scienziato Primo Levi sul rapporto fra scienza, tecnologia e mercato in Storie Naturali.
Del primo, impostosi grazie all’intelligenza commerciale di un creatore di videogiochi e alla dabbenaggine di tanto giornalismo contemporaneo, un attento studioso di media education, Piercesare Rivoltella, sottolinea l’inconsistenza in un suo libro recente ( Neurodidattica, Raffaello Cortina 2013 ): la “diversità” fra adulti e giovani è determinata dalle diverse abitudini, e da un addestramento ad utilizzare strumenti ed operazioni mentali in parte differenti, non certo dalla conformazione del cervello, o da una presunta inclinazione ad attivare meccanismi logici reciprocamente incomprensibili o incompatibili.

  Dalla fede in questi miti nasce quello che proporrei di chiamare “il paradosso di Pietro”.
Non si tratta di un riferimento biblico; Pietro è più semplicemente un collega che insegna Storia dell’Arte in una classe popolata da parecchi “nativi”, che quindi non hanno libri o quaderni di appunti, bensì ebook, tablet e smartphone. L’altro giorno, conversando dei nostri studenti, Pietro avanzava dubbi sull’utilizzo di questi supporti digitali, segnalava il concreto pericolo che consentissero loro di distrarsi più facilmente ( oltre che di copiare agevolmente ), si chiedeva se non fosse possibile controllarne l’uso, ad esempio inibendo alcune funzionalità o vietando l’accesso a siti non scolastici.
Si tratta, credo, di preoccupazioni diffuse e fondate, e non ho qui né lo spazio né le competenze per discuterne.
Tuttavia, mi interessa segnalare due aspetti paradossali denunciati da questo genere di ragionamenti.
Il primo riguarda alcuni l’indirizzo delle attuali politiche scolastiche di modernizzazione, e può essere riassunto in una domanda: che senso ha cercare di migliorare la qualità dell’attenzione e della partecipazione in una classe introducendo strumenti legati strettamente alla dimensione ludica, che la maggior parte degli studenti associa ad attività non regolate?
Il secondo tocca invece l’atteggiamento di molti insegnanti: come si può pensare di rendere utili questi strumenti nell’ambiente scolastico snaturandoli, cioè negando quella libertà di esplorazione, contaminazione e collegamento che ne costituisce , per moltissimi giovani, l’elemento di maggiore attrattiva ed interesse?

  Non è facile immaginare una soluzione a questi paradossi.
Tuttavia è importante cercarla, per evitare che il tentativo di migliorare la qualità della comunicazione fra le generazioni e la trasmissione del patrimonio culturale della nostra società si risolva in un fallimento che sarebbe particolarmente doloroso.
In questa prospettiva, sarebbe interessante che i più acuti critici di quest’aspetto del rapporto fra educazione/ scuola e modernità ( penso in particolare a Ferroni e Sartori ) non si misurassero soltanto con gli apologeti della tecnologia e dei prodotti video ( Negroponte, Baricco, Grasso ), ma con quei curiosi e perplessi osservatori della crescente distanza fra le istituzioni e le culture dei giovani di cui ho parlato in precedenza.
Immaginando un dibattito fra questi intellettuali, le riflessioni di Jenkins sulle competenze digitali mi sembrano illuminanti, e le prendo in prestito per concludere questo mio intervento:

    Concentrare l’attenzione sull’ampliarsi dell’accesso alle nuove tecnologie non ci porterà lontano se non pensiamo anche a promuovere le competenze e le conoscenze culturali necessarie per utilizzare questi strumenti al fine di raggiungere i nostri scopi. ( … ) Il nostro obiettivo dovrebbe essere incoraggiare i giovani a sviluppare le competenze, le conoscenze, gli schemi etici e l’autostima necessari per partecipare a pieno titolo alla cultura contemporanea.

Indicazioni bibliografiche

-         Ferroni Giulio, Dopo la fine, Donzelli editore, Roma 2010
-         Jenkins Henry, Culture partecipative e competenze digitali, Guerini, Milano 2011
-         Gee James Paul, Come un videogioco, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013
-         Levi Primo, Storie Naturali, Einaudi, Torino 1966
-         Luperini Romano, Insegnare la letteratura oggi, Manni, Lecce 2000

-         Rivoltella Pier Cesare, Neurodidattica. Insegnare al cervello che apprende, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012