DE PROPRIS intervento 13/9/14 ADISD Padova

Fabio De Propris, Omero e l’Odissea nella Scienza nuova di Vico (1725-1744) e in Dialettica dell’Illuminismo (1944-1969) di Horkheimer e Adorno: una proposta didattica
Padova, 13 settembre 2014 Palazzo Maldura, piazza G. Folena, aula Calfura 2, convegno ADI-sd



I due testi, La scienza nuova e Dialettica dell’illuminismo vengono messi a confronto, limitatamente alle parti che trattano dell’opera di Omero, per fornire uno spunto di riflessione sull’illuminismo quale elemento costitutivo della mentalità occidentale. L’analisi, in questa sede, ha un fine in primo luogo didattico, perché – nella sua brevità - mostra la relazione tra il metodo di lettura, ovvero tra le domande che si pongono a un testo, e il significato che emerge da quella determinata lettura. L’opera di Omero è di genere epico, ma domande filosofiche poste ai testi omerici producono risposte filosofiche (e questa proposizione è già un omaggio al verum ipsum factum teorizzato da Vico). In secondo luogo, il fine di questa analisi è porre in evidenza le modalità della ragione illuministica, osservando i suoi confini, cioè due luoghi (Scienza nuova e Dialettica dell’illuminismo) in cui si è appena fuori dall’illuminismo, ovvero nella zona esterna che disegna la forma dell’area che vogliamo osservare.

Il testo vichiano (Napoli, 1744, prima ed. 1725) non si inscrive a rigore nell’ambito illuministico perché, pur gettando luce sui processi culturali dell’umanità, attribuisce grande importanza alla Storia, cioè allo sviluppo della mentalità umana nel corso del tempo, ovvero alla validità delle costruzioni culturali umane considerate nel momento storico in cui sono state prodotte. Quello dei due maestri della scuola di Francoforte (1966-1969, prime edd. datate Los Angeles, California: 1944, 1947), come già il titolo enuncia, presenta l’illuminismo non come un trionfo della ragione che cancella una oscura Storia di miti, superstizioni e credenze, ma come un impulso alla comprensione continuamente a rischio di trasformarsi in quel mito che la ragione vorrebbe cancellare, un pensiero che punta a liberare l’uomo dal bisogno (la natura), ma finisce per trasformarsi in uno strumento di dominio dell’uomo sull’uomo. Così recita un passo della Premessa alla prima edizione, datata Los Angeles, 1944:

Non abbiamo il minimo dubbio – ed è la nostra petizione di principio – che la libertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico. Ma riteniamo di aver compreso, con altrettanta chiarezza, che il concetto stesso di questo pensiero, non meno delle forme storiche concrete, delle istituzioni sociali a cui è strettamente legato, implicano già il germe di quella regressione che oggi si verifica ovunque.

Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 5
I riferimenti a Omero nella Scienza nuova sono molti. Tuttavia l’intero Libro terzo è dedicato a Omero (tratta precisamente Della discoverta del vero Omero). La questione omerica è per Vico il banco di prova della sua nuova visione intellettuale, che oggi potremmo chiamare “antropologia culturale”. Teorizzando la storicità dei modi di comprensione del reale nelle tre età successive degli dèi, degli eroi e degli uomini – modi che comprendono i fatti linguistici nel senso più ampio, dalla produzione dei suoni alla creazione di miti e favole – Vico sostiene che (cap. I, par. 1) “essi popoli greci furono quest’Omero”.
Una pagina assai chiara è il gruppo di paragrafi V-XV della sezione seconda, capitolo primo (intitolato Le sconcezze e inverisimiglianze dell’Omero finor creduto divengono nell’Omero qui discoverto convenevolezze e necessità):

“Così Omero compose giovine l’Iliade, quando era giovinetta la Grecia [...] onde ammirò Achille, eroe della forza: ma vecchio compose poi l’Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione, la qual è madre dell’accortezza; onde ammirò Ulisse, eroe della sapienza [...].

G. Vico, Princìpi di scienza nuova, ed. Battistini, p. 477

Il breve par. VI riassume il discorso: “In cotal guisa si dimostra l’Omero autor dell’Iliade avere di molt’età preceduto l’Omero autore dell’Odissea.” Insomma, Omero è “sperduto dentro la folla de’ greci popoli” (par. VIII) e di conseguenza ne riflette le varietà culturali, espressive, storiche e in sostanza, lo sviluppo storico: è “il poeta”, “la poesia”, “l’agire poetico” come può concettualizzarlo un’età eroica ancora non in grado di produrre simili astrazione. Non solo Ulisse, ma anche Omero è, per usare la terminologia vichiana, un “universale fantastico”.

Dialettica dell’illuminismo dedica alcune pagine fondamentali del primo capitolo (Concetto di illuminismo) al XII canto dell’Odissea, quello del canto delle Sirene (“la tentazione che rappresentano è quella di perdersi nel passato”). Odisseo, antesignano del borghese occidentale, eroe del Sé, della conquista dell’identità, di colui che mette ordine nel tempo (passato irrevocabile-presente-futuro), deve lottare contro le Sirene, cioè contro l’indistinto, la natura che cancella ogni identità, il piacere senza alcun progetto e vince creando una classe di lavoratori (i rematori cui impone la cera nelle orecchie) e ritagliandosi la parte del padrone che ascolta il canto, ma legato: gode il piacere di un’arte depotenziata, essendo inerte lui stesso, esattamente come l’industriale fa trasformare la natura ai suoi dipendenti e non gode la soddisfazione del lavoro; esattamente come lo spettatore che ascolta un concerto stando immobile, sfogando la propria inazione solo nell’applauso.
Oltre a questa pagina fondamentale, Horkheimer e Adorno dedicano l’intero Excursus I all’Odissea (Odisseo, o mito e illuminismo), individuando nel poema i momenti di quella dialettica tra mito e illuminismo che è il cuore della loro tesi.
Si leggano ad esempio i seguenti passi (uno tratto dal cap. I, l’altro dall’Excursus I):
Tutto ciò che non si risolve in numeri, e in definitiva nell’uno, diventa, per l’illuminismo, apparenza; e il positivismo moderno lo confina nella letteratura. Unità rimane la parola d’ordine, da Parmenide a Russell. Si continua a esigere la distruzione degli dèi e delle qualità. Ma i miti che cadono sotto i colpi dell’illuminismo erano già il prodotto dell’illuminismo stesso […]

Ma non c’è opera che testimoni in modo più eloquente dell’intreccio di mito e illuminismo di quella omerica, testo originale della civiltà europea.

Horkheimer-Adorno, op. cit., pp. 15-16, p. 53

Le domande che suscita il colloquio con Omero istituito tanto da Vico quanto dai francofortesi sono molte e non a tutte è facile rispondere. Se ne propone qui di seguito un elenco, fornito di risposte, che si spera significativo, ma non si pretende né esaustivo, né paradigmatico.
La prima domanda è: per quale motivo la scelta di entrambi cade su Omero. Si può rispondere che entrambi ricercano un momento sufficientemente antico della storia della cultura occidentale, ma già abbastanza strutturato, in cui vedere come l’Occidente sia diventato ciò che è. Scegliere Omero, in sostanza, è una petizione di principio: in esso si cercano i germi di un processo storico che ha valore di teorema indimostrabile per chi ha deciso di collocarsi dentro la Storia, di vedere i fatti umani all’interno di un meccanismo di sviluppo che però contempla anche ritorni all’indietro (ad esempio il Medioevo per Vico è “Barbarie ricorsa”, ritorno a un’età eroica in un movimento a spirale; il presente per i francofortesi è un momento in cui l’illuminismo si è mitizzato, si trasformato cioè nel nemico arcaico che voleva combattere).
La seconda domanda è: ci sono differenze nel modo di leggere Omero? Direi che Vico concentra la sua attenzione sull’Iliade, poiché Achille è una perfetta incarnazione dell’uomo di età eroica e l’Odissea gli serve strumentalmente a mostrare una trasformazione culturale di quell’età nel processo che la porterà all’età degli uomini. A Vico sta a cuore la specificità dei due poemi e dunque l’inesistenza di un autore unico. Tra i due, gli interessa il più vicino all’origine, per usarlo a sua volta come punto ideale di indagine verso l’età ancora più antica e non documentata dei “poeti teologi” (Orfeo ecc.). Ai francofortesi, al contrario, interessa essenzialmente l’Odissea, perché in Ulisse vedono il prototipo del borghese, dell’astuto uomo moderno, che inganna gli dèi come un avvocato e vuole dominare la natura come uno scienziato, un industriale. Odisseo è un eroe dell’identità (geniale la pagina su Udeis come Odisseo e nessuno). La sua lotta contro il fascino delle Sirene ha la potenza della lotta dell’uomo contemporaneo contro il fascino del godimento immediato, o del godimento mortale (Lacan) di cui ha trattato Massimo Recalcati nel suo intervento al convegno e nel suo recente libro L’ora di lezione.
Una domanda cui è meno facile rispondere riguarda invece il motivo che ha spinto e Vico e i francofortesi a una filosofia dialettica della Storia. Se per i francofortesi si può rispondere che il loro status di sociologi marxisti eretici con ascendenze ebraiche negli anni della Germania nazista li ha drammaticamente posti di fronte agli esiti estremi e paradossali dell’illuminismo in Occidente, rimane difficile capire le ragioni biografiche che hanno spinto Vico a un’interpretazione storicistica della cultura occidentale. Da intellettuale meridionale avrà forse potuto riflettere sullo splendore della Magna Grecia e sulla decadenza del sud Italia dalla morte di Manfredi nel 1266. Ci colpisce però la sua potenza intellettuale, se consideriamo che la sua carriera fu quella di un laureato in utroque iure (1694) divenuto professore universitario di retorica (e docente dal 1699 per quarant’anni della materia). Epigono ideale di una tradizione che va da Marco Terenzio Varrone a Emanuele Tesauro, Vico parte riflettendo sull’etimologia delle parole e sulla funzione delle figure retoriche e arriva a formulare le basi dell’antropologia culturale come filosofia della storia.
Le domande che ci possiamo porre riguardano anche il confronto tra  punto di vista linguistico vichiano e punto di vista sociologico-psicanalitico francofortese. Possiamo chiederci quale sia il debito che i francofortesi hanno contratto con Vico (esplicitamente citato in Dialettica dell’illuminismo e studiato da Horkheimer, come ricorda la bibliografia vichiana di Andrea Battistini posta in calce alla sua recente edizione della Scienza nuova, p. 943).
Ci si può chiedere quali siano gli esiti di una filosofia della storia che prende atto dell’esistenza di una “barbarie ricorsa”, cioè di un possibile ritorno dall’Odissea all’Iliade (viene in mente la sinistra profezia di Einstein, “Non so con quali armi verrà combattuta la Terza guerra mondiale ma la Quarta verrà combattuta con clave e pietre”), e gli esiti di soffocante movimento pendolare tra illuminismo e mito.
Le risposte a queste domande implicano un allargamento della materia da studiare: altre opere letterarie, in primo luogo, perché da Omero in poi si può leggere non solo per il piacere della lettura, ma anche per il piacere della comprensione e della scoperta; altre opere filosofiche (francofortesi più ottimisti come Herbert Marcuse o Hans Georg Gadamer, ma, dialetticamente, anche il filosofo che teorizzò “l’eterno ritorno dell’uguale”, Nietzsche).
Proporre in una lezione scolastica la lettura della pagina di Vico su Omero (Scienza nuova, libro III, sez. II, §§ V-XV) e dei francofortesi su Odisseo e il canto delle Sirene (Dialettica dell’illuminismo, capitolo I, pp. 39-42, ma soprattutto Excursus I, pp. 53-67) può scatenare quell’interesse per un argomento di cui l’insegnante non è depositario di tutte le risposte, ma è un generatore di domande (cosa più importante e più difficile da fare), può contribuire a far sentire lo studente protagonista dello studio, nell’ottica dello sviluppo delle competenze (vorrei citare almeno il saggio di Guido Armellini contenuto nel volume Per una letteratura delle competenze edito da Loescher e curato da Natascia Tonelli sul tema). Può infine contribuire ad affinare quel pensiero critico e in ultima istanza, quel senso di cittadinanza che, come più volte è stato meritoriamente ripetuto in questi giorni, è l’obiettivo principale del nostro insegnamento e “la parte dell’insegnante” nella società moderna, che è tale proprio perché (e solo se) è composta di cittadini consapevoli. Anche letterariamente.
Operativamente, si può introdurre l’argomento presentando i diversi contesti in cui vissero gli autori, le loro specificità e i punti di contatto, partendo dal fatto che l’importanza della Storia e la relatività della ragione umana sono due concetti centrali che accomunano Scienza nuova e Dialettica dell’illuminismo.
Va poi messo in rilievo che Vico è contemporaneo degli illuministi, i quali proprio a Napoli ebbero una fioritura eccezionale, pari a quella milanese, mentre i due filosofi tedeschi, marxisti eretici interessati alla psicoanalisi freudiana, guardano all’illuminismo alla fine della sua storia, nel momento in cui esso, giungendo a piena maturazione, ha contribuito a produrre quell’impasto di trionfo della ragione, di sviluppo tecnologico, di scientismo e di autoesaltazione della cultura occidentale che fu alla base del totalitarismo nazista, dal quale i due autori si salvarono emigrando temporaneamente in California (e non in Unione sovietica, dove il loro marxismo eretico non sarebbe stato affatto tollerato).
Vico, già nella prima metà del Settecento (in dialogo dunque con la cultura cinquecentesca e barocca), suggerisce la validità relativa della mentalità dei “secoli oscuri”, sulla base di geniali strutture quali il principio del verum ipsum factum e l’universale fantastico (interessante sarebbe un confronto critico da un lato con gli idola di Francis Bacon, dall’altro con l’inconscio collettivo di Carl Gustav Jung). Horkheimer e Adorno interpretano l’illuminismo non come un fatto del Settecento, ma come un principio già presente nella storia dell’occidente ai suoi albori. L’illuminismo settecentesco getta una luce razionale su un premoderno mondo mitico, ma già il mito – sostengono – è una forma di pensiero razionale, un tentativo di spiegarsi i fenomeni della natura, mentre l’illuminismo ha finito per mitizzarsi: che il totalitarismo nazista della loro epoca possa essere interpretato come frutto storico di un culto della ragione elevata a predominio della tecnica, a carattere assolutamente positivo, dunque a mito non criticabile è una proposizione che può indurre gli studenti a porre e a porsi molte domande sullo stato presente delle cose. Ci si augura che non si formulino risposte superficiali, ma che si avvii una ricerca approfondita, ricerca che potrebbe durare (e rendere appassionante) una vita intera.



DOCUMENTI

1) Giambattista Vico, Princìpi di scienza nuova (1744), Libro terzo (Della discoverta del vero Omero), sezione seconda (Discoverta del vero Omero), capitolo primo (Le sconcezze e inverisimiglianze dell’Omero finor creduto divengono nell’Omero qui scoverto convenevolezze e necessità), a cura di Andrea Battistini, Milano, Mondadori, 2011, pp. 477-78.







5




10




15




20




25










30










35



















40


V

Così Omero compose giovine l'Iliade, quando era giovinetta la Grecia e, ’n conseguenza, ardente di sublimi passioni, come d’orgoglio, di collera, di vendetta, le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generosità; onde ammirò Achille, eroe della forza: ma vecchio compose poi l’Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione, la qual è madre dell’accortezza; onde ammirò Ulisse, eroe della sapienza. Talché a’ tempi d’Omero giovine a’ popoli della Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l’atrocità: a’ tempi d’Omero vecchio già gli dilettavano i lussi d’Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi de’ proci e di, nonché tentare, assediar e combattere le caste Penelopi; i quali costumi, tutti ad un tempo, sopra ci sembrarono incompossibili. La qual difficultà poté tanto nel divino Platone che, per solverla, disse che Omero aveva preveduti in estro tali costumi nauseanti, morbidi e dissoluti. Ma egli, così, fece Omero uno stolto ordinatore della greca civiltà, perché, quantunque gli condanni, però insegna i corrotti e guasti costumi, i quali dovevano venire dopo lungo tempo ordinate le nazioni di Grecia, affinché, affrettando il natural corso che fanno le cose umane, i greci alla corrottella più s’avacciassero.

VI

In cotal guisa si dimostra l’Omero autor dell’Iliade avere di molt’età preceduto l’Omero autore dell’Odissea.

VII

Si dimostra che quello fu dell’oriente di Grecia verso settentrione, che cantò la guerra troiana fatta nel suo paese; e che questo fu dell’occidente di Grecia verso mezzodì, che canta Ulisse, ch’aveva in quella parte il suo regno.

VIII

Così Omero, sperduto dentro la folla de’ greci popoli, non solo si giustifica di tutte le accuse che gli sono state fatte da’ critici, e particolarmente:

IX

delle vili sentenze,

X

de’ villani costumi,

XI

delle crude comparazioni,

XII

degl’idiotismi,

XIII

delle licenze de’ metri,
XIV

dell’incostante varietà de’ dialetti,

XV

e di avere fatto gli uomini dèi e gli dèi uomini. […]

NOTE. 5. soffrono: ‘sopportano’; 11. crudezza: ‘naturale ferocia’; 16. sopra: ‘come scritto alcune pagina prima’; incompossibili: ‘non possibili insieme’; 17. poté tanto: ‘sembrò così grave’; 21. morbidi: ‘malati’; 24. corrottella: ‘corruzione’; 25. s’avacciassero: ‘si afrettassero ad andare’; 26 in cotal guisa: ‘in questo modo’; 32-33. non solo: l’espressione, presente nell’ed. 1744 e accettata da Battistini, era stata eliminata, per restituire regolarità sintattica, nell’ed. Nicolini; 38. idiotismi: ‘espressioni troppo popolari’; 39. licenze de’ metri: ‘versi in cui la metrica non è perfetta’.




2) Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo (tit. orig.: Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, 1944, 1969), introduzione di Carlo Galli, traduzione di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1997, pp. 53-67 (con tagli)

Ma non c’è opera che testimoni in modo più eloquente dell’intreccio di mito e illuminismo di quella omerica, testo originale della civiltà europea [53].
Nelle stratificazioni omeriche si sono depositati i miti; ma il loro resoconto, l’unità imposta alle leggende diffuse, è anche la descrizione dell’orbita onde il soggetto si sottrae alle potenze mitiche. Ciò vale, in un senso profondo, già per l’Iliade. L’ira del mitico figlio di una dea contro il più razionale condottiero e organizzatore dell’esercito […] forma l’intreccio di storia e preistoria. Ciò vale a maggior ragione per l’Odissea quanto più essa è vicina alla forma del romanzo d’avventure. Nella contrapposizione dell’unico Io superstite al destino dai molti aspetti si esprime quella dell’illuminismo al mito. Il lungo errare da Troia a Itaca è l’itinerario del soggetto – infinitamente debole, dal punto di vista fisico, rispetto alle forze della natura, e che è solo in atto di formarsi come autocoscienza –, l’itinerario del Sé attraverso i miti. Il mondo mitico è secolarizzato nello spazio che egli percorre [54].
Odisseo, come gli eroi di tutti i romanzi successivi degni di questo nome, fa getto di sé per ritrovarsi […] l’organo con cui il Sé sostiene le avventure, e fa getto di sé per conservarsi, è l’astuzia. Il navigatore Odisseo imbroglia le divinità naturali come – un tempo – il viaggiatore civilizzato i selvaggi a cui offre, in cambio di avorio, perle di vetro colorato [55-56]
Autoconservazione e forza fisica si sono dissociate: le capacità atletiche di Odisseo sono quelle del gentleman che, privo di preoccupazioni pratiche, può allenarsi con signorile dominio di sé. E proprio la forza separata dall’autoconservazione torna a vantaggio dell’autoconservazione: nell’agone col mendico, debole, vorace e indisciplinato, o con quelli che stanno spensieratamente in ozio, Odisseo torna a fare simbolicamente agli inferiori ciò che il dominio organizzato della terra aveva fatto loro realmente da tempo; e si qualifica come gentiluomo. Ma quando s’imbatte in forze preistoriche, che non sono ancora addomesticate e infrollite, il suo compito è più difficile. Non può mai intraprendere direttamente una lotta fisica con le potenze mitiche che continuano a vivere ai margini del mondo civile, ma deve accettare come dai i riti sacrificali in cui di volta in volta s’imbatte, e che non può spezzare. Invece d’infrangerli, egli ne fa formalmente la premessa della propria decisione razionale [63-64]

Il Sé rappresenta l’universalità razionale contro l’ineluttabilità del destino […]. È impossibile udire le Sirene e non cadere in loro balia: esse non si possono sfidare impunemente. Sfida e accecamento sono la stessa cosa, e chi le sfida è già vittima del mito a cui si espone. Ma l’astuzia è la sfida divenuta razionale. Odisseo non tenta di seguire un’altra via da quella che passa davanti all’isola delle Sirene. E non tenta neppure di fare assegnamento sul suo sapere superiore e di porgere libero ascolto alle maliarde, nell’illusione che gli basti come scudo la sua libertà. Egli si fa piccolo piccolo, la sua nave segue il suo corso fatale e prestabilito, ed egli comprende che, per quanto possa distanziarsi consapevolmente dalla natura, le rimane, come ascoltatore, asservito. Egli osserva il patto della sua dipendenza, e si divincola ancora, dall’albero della nave, per gettarsi nelle braccia di quelle creature di perdizione. Ma egli ha scoperto una lacuna nel contratto, attraverso la quale, mentre adempie al decreto, nello stesso tempo gli sfugge. Nel patto originario non è previsto se chi passa ascolterà legato o non legato il canto. L’uso di legare appartiene a uno stadio dove il prigioniero non è più ucciso immediatamente. Proprio in quanto – tecnicamente illuminato – si fa legare, Odisseo riconosce la strapotenza del canto. Egli si china al canto del piacere, e lo sventa, così, come la morte. L’ascoltatore legato è attirato dalle Sirene come nessun altro. Solo ha disposto le cose in modo che, pur caduto, non cada in loro potere. Con tutta la violenza del suo desiderio, che riflette quella delle creature semidivine, egli non può raggiungerle, perché i compagni che remano, con la cera nelle orecchie, non sono sordi solo alle Sirene, ma anche al grido disperato del loro capitano. Le Sirene hanno quel che loro spetta, ma già ridotto e neutralizzato – nella preistoria borghese – al rimpianto di chi prosegue. L’epos non dice che cosa accade alle cantatrici dopo che la nave di Odisseo è scomparsa. Ma nella tragedia sarebbe stata certo la loro ultima ora, come per la Sfinge quando Edipo risolve l’indovinello, eseguendo il suo ordine e così rovesciandola. Poiché il diritto delle figure mitiche, che è il diritto del più forte, vive solo dell’ineseguibilità delle loro norme. Se esse vengono soddisfatte, i miti si dissolvono fino alla più lontana posterità. Dall’incontro felicemente mancato di Odisseo con le Sirene tutti i canti sono feriti, e tutta la musica occidentale soffre dell’assurdità del canto nella civiltà, assurdità che è tuttavia, ad un tempo, l’ispirazione di ogni musica d’arte. [66-67]