21/09/13

Studiare italiano a scuola in prospettiva civile. Un esempio: il Medioevo

di Fabio De Propris (Adi-sd Lazio) - Liceo “Tasso” - Roma
 (relazione tenuta al Congresso ADI Roma, 19 settembre 2013)

Nell’ambito di un confronto sul canone, le competenze e la valutazione, mi sembra utile riflettere sul quadro generale all’interno dei quali questi concetti operano. Il risultato immediato di questa riflessione è che un quadro generale va anch’esso delimitato nei suoi confini. Dico dunque che mi riferisco in questa sede allo studio dell’italiano nelle scuole medie italiane.

Non diamo nulla per scontato, partiamo da zero. Prima di interrogarci sulla fisionomia del canone, su quali competenze privilegiare e su come valutarle, vorrei chiedermi se ha un senso lo studio dell’italiano a scuola. Se, ad esempio, non sarebbe meglio studiare solo inglese, o inglese e cinese, nell’attesa di studiare solo cinese, o altre lingue parlate in Paesi militarmente ed economicamente potenti.
Una risposta spesso è contenuta nella domanda. Questo di certo è il nostro caso. La risposta è: sì, vale la pena di studiare italiano nella scuola italiana. Ma la nostra domanda implica una risposta più articolata. Bisogna cioè mettere in evidenza il motivo per cui vale la pena studiare l’italiano, inteso come insieme di lingua scritta, lingua parlata, letteratura ed evoluzione storica della lingua e della letteratura.
Oggi più che mai, qualunque scelta legata al modo in cui uno Stato spende i soldi dei cittadini va sottoposta a un esame. Vista in questa prospettiva, ovvero nella prospettiva di una revisione della spesa pubblica, la risposta positiva alla nostra domanda diventa ancora più ovvia e al tempo stesso più urgente.
Vale la pena, cioè vale la spesa, studiare l’italiano nella scuola media italiana inferiore e superiore, perché in questo studio si pongono le basi di una convivenza civile, che è una ricchezza inestimabile. Una ricchezza che è paragonabile all’acqua: senza conoscere le regole della convivenza civile, come senza acqua, non si è poveri. Semplicemente, non si è. Si è morti.
Insegnare a scuola la propria lingua madre, nel nostro caso l’italiano, significa aiutare gli studenti a usare nel modo migliore possibile lo strumento più efficace per entrare in contatto con altre persone. L’efficacia consiste nel sapere esprimere posizioni politiche, opinioni economiche, istanze spirituali, sentimenti ed emozioni in modo comprensibile e accettabile per chi ascolta.
Idealmente, una città in cui tutti i suoi abitanti sapessero usare la lingua parlata e scritta in modo efficace, sarebbe una città in cui i conflitti sociali tendono a risolversi nel modo più conveniente per le parti in gioco e in cui i conflitti stessi si manifestano nel modo meno devastante possibile.
Poiché una società in cui non si comunica linguisticamente è solo una giustapposizione di individui, o un luogo di conflitti che tenderanno a risolversi attraverso l’uso della violenza fisica, e non è una società
propriamente detta, studiare l’italiano equivale ad apprendere le regole costitutive della convivenza civile.
Il discorso in fondo è un aggiornamento, a duecento anni di distanza, di quanto Ugo Foscolo sostenne nell’orazione pronunciata all’università di Pavia Dell’origine e dell’ufficio della letteratura nel 1809, di cui vorrei almeno citare un passo dal decimo paragrafo:
Ufficio dunque delle arti letterarie dev’essere e di rianimare il sentimento e l’uso delle passioni, e di abbellire le opinioni giovevoli alla civile concordia, e di snudare con generoso coraggio l’abuso o la deformità di tante altre che, adulando l’arbitrio de’ pochi o la licenza della moltitudine, roderebbero i nodi sociali e abbandonerebbero gli Stati al terror del carnefice, alla congiura degli arditi, alle gare cruente degli ambiziosi e alla invasione degli stranieri.
Ogni elemento dello studio linguistico va dunque considerato all’interno di una cornice civile e impostato nella direzione del miglioramento dell’abilità di vivere insieme agli altri in modo cooperativo o, almeno, non irreparabilmente conflittuale.
L’analisi del testo, lo studio della sintassi e del lessico vanno perciò insegnate come strumenti di civiltà. Saper leggere un testo complesso permette infatti a uno studente di comprendere le istanze politiche, ideologiche, sentimentali ed emotive di chi ha prodotto quel testo. Dunque gli permette stare nella società a un livello di consapevolezza più alto.
Lo studio in prospettiva storica della letteratura italiana serve a comprendere le istanze di un testo, poiché la comprensione non può mai essere schiacciata sul presente, ma deve essere una ricostruzione delle istanze che hanno prodotto quel testo, dal momento che il presente è così breve, che un testo, anche recentissimo, ha ben presto bisogno dello sguardo del filologo, dello storico (e ovviamente, anche del geografo, del matematico, dello scienziato o del teologo) per essere compreso. Comprendere l’altro, cioè il testo dell’altro, è necessario a una civiltà non solo perché migliori, ma già solo perché semplicemente esista.
Lo studio dell’italiano in prospettiva civile dà una grande importanza alla produzione testuale. Lo studente, cioè, non deve limitarsi a comprendere cioè che gli altri hanno scritto, ma deve imparare a produrre testi.
Saper parlare, ascoltare, scrivere e leggere sono capacità che ne contengono molte. Per sgombrare il campo dalla più ingombrante, esse comportano un’abilità innata, o incontrollabile dalla scuola perché acquisibile in ambiente familiare nei primissimi anni di vita. Oltre a questa abilità, che si può avere o non avere, ci sono conoscenze e capacità che l’insegnamento deve strutturare, se non creare ex nihilo.
Conoscere nuove parole, ampliare il lessico è fondamentale. Comprendere strutture sintattiche complesse, anche. Detto questo, va ribadito il motivo: padroneggiare la lingua serve a vivere civilmente in una società. Significa rispettare l’umano che risiede nell’uomo che abbiamo davanti, con cui siamo magari in completo disaccordo su tutto, ma con il quale condividiamo la lingua per esprimere il nostro disaccordo. E finché possiamo parlare, è possibile trovare una via d’uscita positiva per tutti e due.
È importante non perdere mai di vista questa prospettiva civile. Altrimenti, conoscere l’italiano può diventare una delle tante cose che si imparano per creare una distanza tra me che so e te che non sai, per creare una professionalità (io so l’odontoiatria, tu no; io so l’architettura, tu no), una competenza tecnica. O, nei casi peggiori, semplicemente per sentirsi superiori.
La superiorità dell’uno sull’altro e la valutazione metrica, numerica, “oggettiva” di questa graduatoria, rischiano di essere considerate dei valori assoluti, che si autogiustificano. La prospettiva docimologica, lasciata a se stessa, rischia di finire in una palude perduta nel deserto, dove non rimane che consolarsi con la sirena, anzi, con la fatamorgana della meritocrazia.
Non si intende qui negare le differenze tra uno studente e l’altro e la necessità di misurarle. Si vuole piuttosto mettere l’accento su ciò che giustifica la valutazione, ovvero lo statuto di una materia di studio e soprattutto i suoi obiettivi generali, che sono di necessità fuori da ciò che si valuta e ne disegna i confini.
Se studiare l’italiano ha come obiettivo la possibilità di una conversazione civile, una società armoniosa, una vita politica degna di questo nome, anche il rispetto dell’ortografia e della punteggiatura assumono una straordinaria importanza: non perché, appunto, ortografia e punteggiatura possono essere utilizzate comodamente in un test a risposta multipla, ma perché sono il segno di un rispetto per l’altro e dunque un elemento di civiltà. Si deve scrivere correttamente una parola perché la forma corretta di quella parola è un elemento storicamente determinato su cui si è stabilito un accordo. Come ogni accordo, prima o poi salterà e si rinegozierà, ma nel frattempo, dato che una società civile si fonda sul rispetto di accordi tra parti in conflitto, insegnare il rispetto di una forma ortografica significa instradare lo studente verso il rispetto per gli altri. E tanto maggiore sarà il numero delle persone che formano una società, tanto più numerose le varie istanze in conflitto tra loro, tanto più prezioso sarà il rispetto delle regole linguistiche, ovvero dello strumento attraverso cui il conflitto sociale si esprime e ha la possibilità di risolversi.
La prospettiva civile dello studio dell’italiano mette un forte accento sulla produzione testuale. Anche la lettura di un classico a scuola deve dunque essere condotta tenendo ben presente che essa dovrà condurre lo studente a una riflessione sui modi in cui la sua società si interroga circa i problemi fondamentali della vita umana.
Tali problemi sono innanzitutto il frutto di un’analisi del reale, perché i problemi emergono quando qualcuno li identifica come tali. L’espressione verbale ha perciò un’importanza enorme nell’individuazione e, in prospettiva, nella risoluzione dei problemi. Dato che vivere in società è il modo che si è storicamente affermato tra gli uomini per individuare e risolvere i problemi con la maggior efficacia possibile, uno studente dovrà imparare ad affinare la sua lingua veicolare (per noi, l’italiano) per vivere nella civitas nel modo più efficace e felice possibile.
Lo studente deve perciò essere chiamato a interpretare e a produrre testi in quanto membro di una civitas, di una città ideale, di una società animata da istanze contrastanti.
Si propone un breve elenco di strade percorribili a questo fine didattico, di assi concettuali che possono guidare lo studio quotidiano:
1) ogni testo letterario nasce da un conflitto: qualcosa della realtà naturale, o, molto più frequentemente, sociale, non piace all’autore che, di conseguenza, scrive per opporvisi. Scrivere è un atto di natura civile;
2) la grande letteratura è tale anche perché l’autore è riuscito, nel suo testo, a esprimere i suoi sentimenti: lo studente deve riuscire anche lui, per imitazione, imparare a esprimere i suoi sentimenti. Ciò comporta la capacità di desiderare, che è una delle capacità più soggette alle condizioni sociali di provenienza e coinvolge la percezione di sé come soggetto, l’autostima, su cui è difficile intervenire solo sul piano linguistico, ma che l’insegnamento della lingua può contribuire a migliorare;
3) un testo efficace è tale perché le argomentazioni vi sono utilizzate in modo persuasivo; oltre alla correttezza morfosintattica, alla ricchezza lessicale e alla coesione testuale, va posta attenzione all’efficacia argomentativa, attraverso un’analisi dei principali argomenta (gli “strumenti oratori” di cui Perelman e Olbrechts-Tyteca scrissero nel loro Trattato dell’argomentazione¸1958);
4) un testo narrativo o teatrale affronta per sua natura il tema della giustizia, ovvero il tema delle regole della convivenza civile; la forma che assume questo tema nella letteratura è quella della giustizia poetica, che attraversa la riflessione filosofica da Aristotele a Martha Nussbaum (passando per la apocatastasi di Origene) e che può essere un punto di vista civile di analisi dei testi molto fruttuoso nella scuola.
Come esempio di uno studio dell’italiano in prospettiva civile, il Medioevo offre, come del resto qualunque epoca, ampie possibilità. In questa sede vale la pena citare il Medioevo perché è l’epoca in cui nasce l’italiano come lingua di comunicazione alta e dunque civile. Il volgare cioè emerge dal latino e si afferma come strumento per la comunicazione politica.
Scorrendo l’indice del vecchio e glorioso volume dei Classici Ricciardi La prosa del Duecento curato da Cesare Segre e Mario Marti nel 1959, colpisce che il primo capitolo è dedicato alle arti del dittare, alle epistole e alla prosa d’arte. Il carattere fondativo della prosa duecentesca mette cioè in rilievo che l’insegnamento delle tecniche di espressione scritta e parlata in lingua volgare sono un elemento fondativo anche della civiltà comunale.
La Gemma purpurea del maestro bolognese Guido Faba (scritta tra il 1239 e il 1243) offre un esempio molto efficace dello scontro civile che la lingua può veicolare. A scontrarsi, com’è giusto in un testo scolastico, dove lo scontro non è reale ma ludico (non si dimentichi che ludus in latino significava anche ‘scuola’), sono la Quaresima e il Carnevale. Così parla Quaresima al suo avversario:
Noi Quaresema, matre d’onestà e de discretione, no salutemo te Carnelv[a]re, lopo rapaçe, che no se’ digno; ma in logo de salute, abie planto e dolore. Tu sai bene che noi conosemo le tue opere, e le tue iniquità sono a [n]oi manifeste;
[…]
Unde lo mundo, lo quale tu hai bruto per peccati, volando purgare dignamente per vita munda et immaculata, per deçonio et oratione e beneficio de carità, comandamoti destrectamente ca, tra qui e martidie, debie inscire de tuta cristianità, e la tua abitazione scia in logo diserto, overo in terra de Sarasina, saipando che, se tu ti lasaria trovare, noi cum nostra cavallaria confonderemo te e tuta la tua gente.
Carnevale (Carnisprivium) risponde punto per punto, in uno scontro oratorio elevato benché giocoso:
Noi Carnelvare, rege dei re, préncepo de la tera, no diamo salute a tie Quaresima topina, ch’èi plena de planto e d’onne miserie; ma tego scia confusione, angustia e dolore; ca tu è’ inimica del mundo, matre de avaricia, sore de lagreme, figlia de nudità, […] [o]nne anno ne fai asalto scicomo fùlgore e tempesta e in la tua piçola demorança se fa multi mali et iniquità, e tanto è’ tediosa e fastidiosa, che tuti te porta odio e desidrano che ten debia tornare. Ma per noi e la nostra gente se fa belli canti e tresche; per noi le donçelle se rasença e fasse grandi solaçi, çoie e deporti […]
Anche le epistole di Guittone d’Arezzo offrono un esempio di una prosa combattiva sul piano retorico e politico, ricca di riferimenti filosofici e religiosi, animata dunque da un desiderio di intervento nel dibattito civile che è il vero motore della sua prosa. Notevoli sono anche l’opera di Guidotto da Bologna, che nel Fior di rettorica volgarizza la Retorica ad Herennium e l’opera di Brunetto Latini. Il fine civile è evidente: l’avvocato e l’uomo politico devono sapere parlare nel foro e nei consessi di governo in modo efficace.
Anche la storiografia medievale, nei suoi più noti esempi di Dino Compagni, di Giovanni Villani, della Cronica dell’Anonimo Romano (identificato nel 1994 con il nobile Bartolomeo di Jacovo da Valmontone) ha connotazioni civili di immediata evidenza, che possono dunque essere portati a esempio di un uso della lingua vivo e intimamente connesso con la realtà del tempo.

Circa poi la narrativa d’intrattenimento (dal Novellino al Decameron, al Trecentonovelle) e la lirica d’amore (il Dolce Stil Novo) e realistico-giocosa il discorso civile si fa apparentemente meno vivido, ma in realtà diviene più urgente, almeno per un insegnante. Infatti è proprio nella letteratura “pura” che l’autore chiede a chi ascolta o legge di condividere i più alti valori di civiltà, che coinvolgono il modo di sentire e il modo di esprimere i sentimenti. Parlare d’amore o raccontare storie, al pari dell’oratoria epidittica (gli elogi funebri, le commemorazioni, le premiazioni), cementa i valori civili che si ritengono condivisibili e sono dunque un discorso civile al sommo grado. Anche in questo campo la valenza polemica è evidente: basti pensare alla canzone di Guido Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore, in cui si stigmatizza la nobiltà di sangue e si esalta la nobiltà di spirito.
La prospettiva civile nello studio dell’italiano, concludendo, è l’obiettivo che va perseguito in tutta la scuola media inferiore e superiore. Oggi, poi, con la presenza sempre maggiore di studenti che non sono italiani madrelingua, tale prospettiva diventa ancora più urgente e necessaria, perché l’uso efficace della lingua veicolare è un elemento fondamentale della cittadinanza.